Suicidi in carcere, le morti silenziose che sono in aumento costante

Sono esseri umani. E la vita di ogni persona è sacra: lo è quella dei detenuti che abitano le carceri italiane. Soggetti da riabilitare. Uomini e donne che, il più delle volte, non trovano nella casa circondariale il luogo della espiazione e rieducazione ma un vero proprio inferno, capace di tradursi in una trappola mortale. Si pensi che i suicidi in carcere sono già 30 nel 2024. Si va verso un nuovo record, dopo quello registrato due anni fa, con 85 decessi accertati – nel 2023 erano 71. Pertanto la media attuale è di un suicidio ogni tre giorni e mezzo.

Suicidi in carcere e sovraffollamento

L’altro dato allarmante riguarda il tasso di affollamento. Lo dicono i numeri riferiti a quest’anno: al 31 marzo le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. “Le cause di questa crescita sono diverse: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione di nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi”, riporta il dossier Nodo al collo pubblicato da Antigone. I tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia (152,1%), in Lombardia (143,9%) e in Veneto (134,4%). Solo il Covid ha frenato la crescita nel recente passato. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a cause delle misure deflattive adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano infatti calate di 7.405 unità, precisa lo stesso XX rapporto dell’associazione italiana che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Le vittime

L’età media di chi si è tolto la vita è di 40 anni. La fascia più rappresentata, infatti, è quella compresa tra 30 e 39 anni. Muoiono gli stranieri più degli italiani. Considerando che la loro presenza in carcere è leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%). Oltre alle persone giovani o giovanissime, a quelle di origini straniera, sono numerose le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche, riconducibili ai suicidi in carcere. Il che certamente non può essere considerata la normalità. Per alcuna ragione, infatti, la sofferenza di un individuo dovrebbe essere portata alla disperazione totale. Tra le vittime in carcere ci sono persone passate dal tunnel della tossicodipendenza. O quelle che erano senza fissa dimora.

Cosa si può fare per arrestare il trend di crescita allarmante? Secondo gli esperti di Antigone occorre favorire percorsi alternativi al carcere, e migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, al fine di ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione, che stanno alla base dei suicidi in carcere. Concretamente si potrebbe incentivare una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno. Le telefonate andrebbero liberalizzate: “Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Occorrerebbe poi ripensare il sistema carcere. Che già da tempo, ormai, non è più il luogo dove marcire per aver commesso uno o più reati.

Barcellona 2024, gli highlights del ritorno di Nadal: Cobolli non ha scampo

Una lunga sosta. Un ritorno in grande stile per Rafael Nadal, che al torneo Atp 500 di Barcellona si è sbarazzato di Flavio Cobolli in due set: l’ex numero uno del mondo ha vinto nella gara di esordio con il punteggio di 6-2, 6-3. Senza storie il match. Anche se l’azzurro, nel secondo set, era riuscito a strappare il servizio all’avversario specialista della terra rossa. Sebbene la vittoria fosse scontata, appare incoraggiante la prestazione offerta dal campione che ha trentasette anni, e nessuna intenzione di appendere la racchetta al chiodo, a causa dei guai fisici e dell’avanzare dell’età. Adesso il maiorchino dovrà vedersela con l’australiano Alex De Minaur. I suoi numeri e i suoi tic in campo ci erano mancati: più di qualcuno deve aver fatto il tifo per lui, tra gli italiani, sostenendo la ripresa di un mostro sacro.

Genocidio a Gaza, quando le atrocità tendono a fare rima

“Quando Israele bombarda e spara ai civili, blocca gli aiuti alimentari, attacca gli ospedali e interrompe le forniture d’acqua, ricordo gli stessi oltraggi in Bosnia”. Così sulle pagine del Washington Post Peter Maass denuncia quanto sta accadendo ai danni del popolo della Palestina. “Quando le persone in fila per la farina a Gaza sono state attaccate – continua il giornalista e scrittore americano, reporter di crimini di guerra – ho pensato ai cittadini di Sarajevo uccisi in prima fila per il pane e ai responsabili che in ogni caso hanno insistito sul fatto che le vittime erano state massacrate dalla loro stessa parte”. Ciò è semplicemente inaudito. Rispondere alle atrocità con altre atrocità. Nella fattispecie, all’attacco del sette ottobre scorso portato dai combattenti di Hamas sui partecipanti del festival musicale Supernova e sugli israeliani uccisi nelle loro case, nel kibbutz di Kfar Aza.

La testimonianza diretta

Altro che caso “plausibile” di genocidio, come lo ha definito la Corte internazionale di giustizia: chi ha familiarità con i crimini di guerra non esita nel riconoscere quanto compiuto da Israele come un vero e proprio crimine, per la presenza di prove a sufficienza. Peter Maass ha seguito la guerra in Bosnia per il Post e l’invasione dell’Iraq per il New York Times Magazine. Sa pertanto quello di cui noi siamo a conoscenza solamente attraverso gli organi di informazione, tutt’altro che affidabili al 100 per cento, in ogni Paese, dittatoriale o democratico. Riportando anche un episodio toccante (un colpo di pistola letale su un’anziana che teneva per mano il piccolo nipote e una bandiera bianca), il reporter americano dichiara che gli attacchi avvenuti di giorno non sono stati accidentali. E non vanno sottaciute le atrocità, quando emergono. Né si può osservare la logica dell’occhio per occhio, dente per dente. Che il diritto internazionale non contempla.

I numeri del genocidio

Tredicimila bambini uccisi. E molti altri feriti. Case, scuole e ospedali in rovina. Insegnanti, medici e umanitari morti, tra i civili. Oltre ai 7 cooperanti uccisi a Gaza, “colpiti involontariamente” a detta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. In sei mesi di guerra spaventosa le vittime palestinesi sono in totale oltre 33mila. Lo denuncia Hamas. E secondo il ministero della Sanità con sede a Ramallah, almeno altri 459 palestinesi, fatti oggetti di violenze, hanno perso la vita nella Cisgiordania occupata. Più di 359 le persone uccise in Libano, dei quali almeno 70 civili, riferisce l’Afp. A fronte di questi numeri, c’è da rivalutare il negazionismo in senso positivo: la Shoah non è stata nella storia l’unico genocidio, per cui si intendono gli “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” (questa la definizione legale); e stilare una classificazione dei genocidi sarebbe ingiusto e pericoloso. Così Peter Maass rivela che la sua esperienza maturata sui crimini di guerra gli ha insegnato che essere ebreo significa opporsi a qualsiasi nazione che commette crimini di guerra.

Nba, gli highlights della clamorosa rimonta di Atlanta su Boston: 30 punti

Il risultato finale è già fuori del comune: 120-118. Lo è certamente nelle nostre categorie. Ma pure in Nba, tra gli undici incontri di ieri, per come è maturato il successo di Atlanta su Boston: la squadra locale è riuscita a recuperare ben 30 punti. Così gli Hawks hanno interrotto la striscia positiva di 9 risultati dei Celtics. Che pure potevano contare sul contributo di Jayson Tatum, autore di una prestazione monstre, con 37 punti – nel primo tempo la partita sembrava chiusa. Decisivo il tiro dall’arco di De’Andre Hunter a dieci secondi dalla fine.

Dagli Stati Uniti, dal campionato più bello e più spettacolare del mondo, la Nba e dalle imprese sportive, una lezione per tutti: se sei sotto di brutto, non darti per vinto!

“Harry, prendi la macchina”. E Fritz Wepper raggiunge l’ispettore Derrick

L’attore tedesco è morto all’età di 82 anni. Se n’è andato in una casa di riposo in Baviera, per le complicazioni di un tumore. Era famoso, Fritz Wepper, per aver interpretato il ruolo del fidato assistente dell’ispettore Derrick nella serie tv andata in onda per 24 anni: un prodotto di successo che, esportato in tutto il mondo, fu poi censurato in seguito a una rivelazione scottante. Ovvero quando si scoprì del passato di Horst Tappert da militante delle SS. Una contraddizione non tollerata, per colui che portava in scena un gentiluomo, un ispettore mai violento e dai modi raffinati, all’interno di una serie caratterizzata dalla scenografia asciutta e dai finali mozzati.

Ecco Fritz Wepper alias Harry Klein in compagnia dello stesso Horst Tappert, e l’inconfondibile sigla de L’ispettore Derrick

Eugenio Maria Fagiani, la missione della Musica portata in Russia

Sarà criticato o semplicemente ignorato. Ma è inattaccabile il sunto del suo pensiero libero: il mondo dovrebbe imparare dalla storia, per non ripetere gli errori passati, e non creare una nuova cortina di ferro, ha detto Eugenio Maria Fagiani. Che per unire offre il contributo della sua musica. L’organista e compositore bergamasco si sta preparando per una tournée in Russia. Reduce dal Festival internazionale di Kazan, il musicista è stato tra i protagonisti dell’evento diretto dall’Orchestra Sinfonica Accademica di Stato della Repubblica del Tatarstan, e non intende porsi dei limiti. Non ritiene inopportuno esibirsi nel Paese che ha attaccato militarmente l’Ucraina. Se non altro, perché dei media occidentali non si fida: lo ha detto chiaramente in una intervista rilasciata agli organi di informazione della Russia, a Izvestia in esclusiva. Terrà 6 concerti nel mese di aprile. Suonerà a San Pietroburgo con un’orchestra italiana, a Mosca, Arkhangelsk, e a Chelyabinsk.

Il contributo musicale di Eugenio Maria Fagiani

“Penso che la mia musica sia piena di luce, di gioia di vivere. Sono un profondo credente, quindi sono sempre pieno di speranza, e la musica riflette questo: ha energia”. Così il maestro Fagiani si è messo in sintonia con il Festival, nel senso e nei contenuti, accogliendo la richiesta della professoressa Evgenia Krivitskaya, curatrice del programma scelto. L’italiano ha ammesso la propria soddisfazione nell’aver mostrato il panorama della musica italiana. Ovvero nell’aver contribuito a creare un’immagine diversa da quella che il pubblico è abituato a vedere nei concerti italiani: non ouverture e frammenti d’opera, ma altro: il repertorio sinfonico. Peraltro, sono stati scelti tre compositori toscani. Ovvero Boccherini e Sborghi, oltre allo stesso Fagiani. Opere distanti sul piano temporale ma tenute insieme geograficamente e trasversalmente (“La cultura è cultura. E nessuno dovrebbe interrompere i legami culturali”).

L’invito al dubbio

Riguardo alle critiche a Francesco, per la posizione espressa sulla guerra in Ucraina, Eugenio Maria Fagiani che oltre a svolgere attività concertistica presta servizio presso il santuario francescano della Verna (ha suonato pure in Vaticano, a dicembre), sottolinea che le parole del papa vengono approvate quando sono utili ad alcuni politici: “Se dice qualcosa che è in linea con i Paesi occidentali, dicono: ‘Sì, ascoltate Francesco’. Ma non appena esprime una posizione a loro sfavorevole, lo criticano immediatamente: Non dovrebbe parlarne, non sa nulla…”. L’opinione del papa andrebbe rispettata. Anche se non si è credenti, aggiunge. “Oggi è diventato molto difficile esprimere una qualsiasi posizione: si viene immediatamente criticati da ogni parte”. E fa l’esempio del Medio Oriente: “Lì è in corso una vera e propria tragedia E la situazione non è affatto bianca o nera. Quindi sono ben lungi dal pensare che in altre regioni tutto sia univoco”.

Il ragionamento è giusto. Peccato che ci sia una grande omissione all’interno della lunga intervista: nella logica pacifista promossa attraverso la musica, mancano parole di ferma condanna verso l’aggressione orchestrata da Vladimir Putin. O forse c’erano; ma i media russi, non più affidabili dei nostri, ne hanno fatto oggetto di censura.

Undici anni con Francesco: il coraggio di predicare e praticare la pace

Le sue parole sono state fraintese e criticate. Non da tutti, in verità – larga parte dell’opinione pubblica deve essere dalla sua parte. Non c’è niente di nuovo ma è sempre rivoluzionario quanto ha detto papa Bergoglio sulla guerra in Ucraina. Sono undici anni infatti (tra poco, mercoledì prossimo 13 marzo, ricorre l’anniversario del Pontificato) che Francesco parla di pace, con la forza e con il coraggio di chi sa andare controcorrente, se necessario. Più di undici anni che il religioso parla di amore e di fratellanza universale. E la pace non si costruisce con le armi.

Il coraggio di negoziare

Il papa usa il termine bandiera bianca a indicare la cessazione delle ostilità. Lo ha precisato Matteo Bruno, direttore della sala stampa della Santa sede, dopo l’intervista rilasciata da Francesco alla Radio televisione svizzera, due giorni fa. Parole che sono state strumentalizzate in una scia polemica inarrestata. Quanto richiesto, auspicato, dal pontefice è la tregua da raggiungere (dopo tante bombe, vittime e ostilità) attraverso il coraggio del negoziato. “Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore: la Turchia si è offerta per questo, e altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”, ha detto papa Bergoglio alla stessa Rsi. Le sue dichiarazioni vanno contestualizzate in tempi di crisi e di violenze generalizzate. La sua missione resta quella di moltiplicare non l’angoscia, ma la speranza.

L’escalation, il rischio da scongiurare

La violenza genera altra violenza. L’incidente, dietro l’angolo; e oltre al suicidio di un Paese devastato, il pericolo dell’allargamento del conflitto in Ucraina con il coinvolgimento della Nato è reale, sino al rischio di una terrificante guerra nucleare. Pensiamo alle recenti dichiarazioni del Capo di Stato della Francia Emmanuel Macron o alle esercitazioni della Nordic Response propedeutiche a una risposta o un’azione militare a sostegno del Paese invaso. Intanto, il presidente ceco Petr Pavel ha già dichiarato che le truppe della Nato potrebbero svolgere attività di sostegno direttamente sul territorio dell’Ucraina. Perché questo non violerebbe alcuna regola internazionale. Sebbene ci sia da fare una netta distinzione tra il dispiegamento delle truppe da combattimento e l’eventuale utilizzo di altre in attività di cosiddetto appoggio, nelle quali l’Alleanza ha già esperienza, questa mossa potrebbe essere mal interpretata da Mosca. Ovvero letta come segnale di una escalation che bisogna avere invece il coraggio di arrestare.

Nordic Response 2024, l’esercitazione Nato letta come una dichiarazione di guerra

Una prova diversa dalle altre. Sebbene, infatti, le esercitazioni della Nato si siano sempre fatte, quella in svolgimento nel nord Europa assume quest’anno un’altra valenza: rappresenta una risposta efficace a un pericolo concreto, all’interno dello scenario di crisi internazionale che stiamo vivendo. Dobbiamo essere pronti a difendere i nostri confini, in sostanza. Non la pensano così nella parte avversa: durante l’esercitazione denominata Nordic Response 2024, avviata ieri 4 marzo in Norvegia, Svezia e Finlandia, verrà praticata un’operazione offensiva contro la Russia. Lo hanno dichiarato alcuni esperti militari.

Nordic Response 2024

L’esercitazione coinvolgerà circa 20mila persone provenienti da 14 Paesi. Verranno dispiegati oltre 100 elicotteri e aerei da combattimento, e più di 50 navi da guerra; almeno 50 sottomarini, fregate, corvette, portaerei e varie navi anfibie – anche l’incrociatore portaeromobili Garibaldi e la nave San Giorgio della Marina Militare Italiana. Tali risorse saranno impegnate fino al quattordici marzo nello spazio aereo della Svezia e della Finlandia, nelle regioni settentrionali della Norvegia, e nelle aree marine adiacenti. Questi i numeri imponenti di quanto sta accadendo nel cuore dell’Artico con il coinvolgimento dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica. Segnatamente: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Oltre a Finlandia, Norvegia e Svezia. L’obiettivo dichiarato è l’addestramento utile alla difesa e alla sicurezza dei Paesi del Nord Europa. “Dobbiamo essere in grado di reagire e fermare chiunque cerchi di sfidare i nostri confini, i nostri valori e la democrazia”, ha detto Throne Strand, comandante del Norwegian Air Operations Center.

La risposta di Mosca

“Si sta elaborando un’operazione diretta contro la Russia, di natura puramente offensiva. La Nordic Response e la Steadfast Defender 2024 nel loro complesso sono nettamente diverse dalle precedenti per la loro natura: per la durata, la composizione dei partecipanti, la partecipazione di massa e il fatto che dichiarano apertamente di praticare attacchi sul nostro territorio”. Così l’ammiraglio Sergei Avakyants mette in guardia dai rischi legati alla stessa esercitazione della Nato. Più cauto del miliare, già comandante della Flotta russa del Pacifico, è il viceministro degli Esteri russo Aleksandr Grushko nel dichiarare che le manovre di risposta nordica sono di natura dimostrativa e provocatoria, e che la Russia le sta monitorando. Il diplomatico ha inoltre considerato che qualsiasi esercitazione aumenta il rischio di incidenti militari. Soprattutto in prossimità geografica della linea di contatto. C’è poi l’intervento dell’esperto militare Aleksey Leonkov il quale ha sottolineato la grande estensione dei piani di esercitazione della Nato, quest’anno, tutti accomunati da uno scenario antirusso. Questa la lettura dell’accadimento nel Paese che ha aggredito l’Ucraina militarmente.

Macron vuole l’Europa in guerra: il presidente Mattarella intervenga

Due anni di conflitto in Ucraina non sono bastati per risolvere la crisi né per scongiurare l’allargamento dello stesso con il coinvolgimento della Nato. Ipotesi da respingere con tutte le forze intellettuali, per il bene nostro e dei nostri ragazzi, delle generazioni che verranno: è il senso del forte appello lanciato dall’Associazione Pace Terra Dignità. Che chiede al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di imporre il rispetto della Costituzione. La Carta costituzionale italiana, come sappiamo, ripudia la guerra. Non Emmanuel Macron che ha minacciato un intervento delle forze armate dei Paesi europei per sconfiggere la Russia aprendo così una nuova fase.

L’imperativo categorico, morale: vigilare

L’Associazione Pace Terra Dignità anzitutto chiama in causa il Presidente della Repubblica e ammonisce il governo a tenere ben fermo che gli art. 21 e 52 della Costituzione in nessun modo consentirebbero la partecipazione dell’Italia a questa guerra, mancando ogni presupposto, se non nei processi alle intenzioni e nelle fantasie ammalate, di una sacra difesa della Patria. È il cuore dell’appello rivolto alla comunità dei social e alla rete mediatica “a farsi eco di questo imperativo morale”. Ovvero a vigilare nell’azione di contrasto alle spinte belliciste provenienti da Macron e non soltanto. Il rischio è di scivolare verso una guerra mondiale, dopo 79 anni di tregua, che non è mai riuscita a diventare vera pace, rileva la stessa associazione promossa da Michele Santoro.

Il piano Macron

Il Capo di Stato della Francia, in verità, non ha parlato di una missione Nato, bensì di una coalizione militare di “volenterosi” che assicurino l’invio in Ucraina di soldati occidentali. Questo accadrebbe nel caso in cui Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. Sebbene si tratti di un’ipotesi remota, per la prima volta attraverso Macron si parla, in modo chiaro, dell’invio di truppe occidentali a supporto dell’esercito ucraino: dovrebbe bastare per spaventare. E ahinoi per provocare la reazione del Cremlino. Sarebbe guerra diretta, dagli esiti imprevedibili, incerti e per tutti drammatici, quand’anche dovesse concludersi con la sconfitta della Russia sul campo dell’Ucraina.

Sepideh Rashno, la donna simbolo di una resistenza che non incontra solidarietà

È finita in carcere solo per non aver indossato correttamente il velo obbligatorio islamico. Perché lì la mortificazione della donna risulta essere la normalità. Lei ha solamente ventinove anni, Sepideh Rashno, e per quanto ha commesso dovrà scontare una pena di 3 anni e quattro mesi. La donna era già stata in carcere la scorsa estate uscendone per un ricovero in ospedale. Ci è entrata di nuovo, sabato scorso, senza velo: un atto di insubordinazione di chi reclama la libertà. In quella parte del mondo, non troppo lontana, l’Iran, dove le donne non possono vestire come a loro pare. Non sono meritevoli di avere garantiti quei diritti fondamentali per l’essere umano.

Chi è Sepideh Rashno

La scrittrice iraniana, classe 1994, artista e attivista, si è fatta conoscere con un video diventato virale: nel luglio 2022, su un autobus, ha avuto un alterco con un’altra donna per le regole dell’hijab. Ovvero per non aver indossato il velo correttamente. Dalla stessa donna, Rayeheh Rabii, deve aver subito un’aggressione non solo verbale. Poi è stata probabilmente la tortura a causare l’emorragia interna che l’ha portata al ricovero in un ospedale di Tehran. Qualche giorno dopo l’abbiamo trovata in un video trasmesso dalla televisione di Stato IRIB: una confessione che non appare spontanea, le pubbliche scuse di chi non ha commesso proprio niente di male. Dalla prigione di Evin è stata rilasciata il 30 agosto fornendo come garanzia una somma corrispondente a circa 29mila dollari.

La solidarietà

Ben poco si è fatto, nei Paesi che amano la democrazia e la libertà, per questa giovane donna, che nello scorso mese di novembre è stata inserita nella lista delle 100 donne della BBC. Poco si fa per condannare le condizioni delle ragazze iraniane. L’indignazione, invece, dovrebbe essere trasversale, e assumere la forma della protesta in piazza. Perché l’accusa mossa a Sepideh Rashno (“promozione della corruzione morale”) dovrebbe indignare. La stessa sorte è capitata a tante altre donne colpevoli di aver violato quella regola dell’hijab.

Russia, bombardamento di Belgorod: un bambino tra le 7 vittime civili

Nelle ore in cui si parla della morte di Aleksey Navalny, tenuta accuratamente nascosta dai media russi locali, la scomparsa (improvvisa, ma non tanto) dell’oppositore di Vladimir Putin in carcere, arriva un aggiornamento sul tragico bilancio di quanto accaduto lo scorso quindici febbraio al confine con l’Ucraina. Siamo a Belgorod: un bombardamento attribuito alle forze ucraine ha fatto 7 morti, tra cui un bambino di un anno, oltre ad aver danneggiato un centro commerciale, case e automobili. Diciannove i feriti.

La città viene spesso raggiunta dai missili e dai droni ucraini – alla fine dello scorso anno l’attacco più grande aveva dato la morte a 25 persone. Un effetto collaterale della guerra russo-ucraina, l’uccisione di civili, da ambo le parti. A dare notizia dell’ultimo attacco (due missili hanno colpito anche il campo sportivo di una scuola, oltre al centro commerciale) è stato il governatore dell’omonima regione di Belgorod Vjačeslav Gladkov. L’agenzia di stampa statale Ria Novosti aveva anche pubblicato un video che mostrava i danni materiali.

Bombardamento di Belgorod, la condanna unanime

“Tutti coloro che hanno trasferito e stanno trasferendo denaro per le Forze Armate dell’Ucraina (AFU) e per il resto del marciume neonazista dovrebbero sapere esattamente per cosa stanno andando. E dobbiamo qualificarlo di conseguenza, sia moralmente che legalmente”. Così la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova è intervenuta sul suo canale Telegram con un messaggio di condanna. Che è arrivata anche dalle Nazioni Unite. Il portavoce del Segretario generale Stephane Dujarric ha infatti parlato di azioni inaccettabili: “Ribadiamo ancora una volta che gli attacchi ai civili e alle infrastrutture civili sono vietati dal diritto umanitario internazionale. Sono inaccettabili e devono cessare immediatamente”. Lo stesso Stephane Dujarric ha sottolineato il lavoro offerto sul campo dagli operatori umanitari che continuano a fornire assistenza ai civili. A quanti soffrono a causa dei combattimenti in corso. Per una guerra di logoramento, che chissà quando e come finirà.

Vale la pena vivere un giorno in più

Ha nome rancore il grande assente nella vita di Giovanni Allevi. Un essere umano, nel vero senso del termine, capace di apprezzare i colori dell’alba e del tramonto “goduti” dal letto di ospedale, distinguendoli; di cogliere il positivo dentro il dramma e la sofferenza, piombati improvvisamente nella sua esistenza, e immeritatamente. È il ritorno di Giovanni Allevi esibitosi in pubblico dopo due anni di assenza. Un momento di straordinaria intensità: il musicista che al Festival di Sanremo 2024 ha citato Immanuel Kant (Critica della Ragion Pratica) per definire l’unicità della persona a cui si rivolge, ci ha offerto una lezione di vita che resterà per sempre.

“Eleonora Duse” di Stefania Romito: il perdersi come ragione di vita

Tra realtà e finzione il carteggio tra Arrigo Boito e Eleonora Duse, la “Divina” legata a Gabriele D’Annunzio, della quale ricorre il centenario della morte

di Gianluigi Chiaserotti*

Stefania Romito in questo splendido libro ci accompagna verso una lettura articolata di Eleonora Duse, personaggio, ma soprattutto attrice e donna.

Eleonora Duse – il primo Amore con Prefazione di Pierfranco Bruni (pagg. 116, Collana Nuovo Rinascimento, Passerino Editore, 2023) è un saggio della scrittrice, saggista e fine giornalista Stefania Romito. È stato scritto in vista nel corrente anno, primo centenario della morte dell’attrice Eleonora Duse (1858-1924).

L’attrice, detta la “Divina”, si trova nella stanza dell’albergo di Pittsburg, quasi come se fosse il testimone dei suoi ultimi momenti di vita (vi morirà il 21 aprile 1924), ed esso diviene un involontario teatro (passione di una vita) ma privilegiato di intime confessioni.
Sembra come se la Duse si rivolgesse al lettore in un dialogo con la sua anima e con i suoi veri e unici amori: il maestro Arrigo Boito e il “Vate” Gabriele d’Annunzio.

In questo quadro, dipinto alla grande dalla Romito, si ravvisa un intimo colloquiare della Duse con sé medesima e come scritto nell’introduzione: «è la straordinaria capacità di vivere intensamente le emozioni di una vita assaporandone fino in fondo l’essenza in uno smarrimento costante dei sensi».
E lo “smarrirsi” è per “ritrovarsi” oppure “perdersi” nuovamente nel sentimento dell’amore, che poi è la ragione di una vita.

Questi sono gli ultimi atti della vita della “Divina”, narrati in terza persona, ma avendo la stessa come spettatrice. Ed ecco il primo incontro con Boito, la tournée in Sud America, il ritorno ed il nuovo incontro che sarà l’incipit di una relazione che durerà per oltre un decennio. Il libro è dedicato ad una donna la quale interpretò, e bene, la propria esistenza che poi è una recita, e che ha rappresentato le opere dei più grandi drammaturghi con quella unica passionalità. Perché il teatro è sicuramente vita, ma soprattutto Amore.

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“Giornata della Memoria” tra antisemitismo e genocidio del popolo palestinese

Quest’anno se n’è parlato con largo anticipo. Più degli scorsi anni, a causa dello scenario di crisi internazionale.  Ed è un bene, che il tema sia trattato attraverso dibattiti, incontri, film in televisione. Perché la Shoah al centro della Giornata della Memoria è stata un’infamia nel cosiddetto secolo degli Stermini. Ma quello perpetrato ai danni del popolo ebraico è grave quanto il genocidio del popolo palestinese, del quale il governo israeliano si sta macchiando, agendo impunemente. Nessuno è esente da colpe. La “pulizia etnica” della Palestina ad opera dei governi israeliani con la complicità dell’Occidente, perdura da oltre quarant’anni: lo denuncia lo storico israeliano Ilan Pappé nel suo libro La prigione più grande del mondo.

Giornata della Memoria: tutti uniti nella condanna

Non è mai stata retorica. L’obiettivo della Giornata della Memoria (27 gennaio) resta testimoniare, ricordare, e meditare sui tragici avvenimenti che colpirono l’Europa nella prima metà del Novecento: la condanna va contro il sistema dello sterminio di massa, degli ebrei e non soltanto. Hitler e Mussolini ne furono i maggiori responsabili. Ma quanto avvenuto negli anni successivi alla prima guerra mondiale fu alimentato da un consenso largo – si obbediva per paura o per apatia morale. Le vittime della Shoah (catastrofe) vanno ricordate attraverso l’impegno costante a fare in modo che simili e irrazionali atrocità non abbiano a ripetersi mai.

Il potere della Musica

Un film da rivedere sulla Shoah è “Il pianista” di Roman Polansky. Opera di successo e intensa che, tratta dal romanzo di Wladyslaw Szpilman, ci interroga sulla devastazione, sull’orrore e sulla miseria portate dalla guerra. Ma  il pianista interpretato da Adrien Brody magistralmente lascia germogliare anche e soprattutto il seme della speranza. È il potere della Musica che si erge sopra tutto, che zittisce gli orrori della guerra, e alla quale si deve inchinare anche il più empio, nell’ascolto con deferenza.

Il mondo si prepara a una nuova pandemia 20 volte più mortale del Covid

“Con i nuovi avvertimenti dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui una Malattia X sconosciuta potrebbe causare 20 volte il numero di vittime della pandemia di coronavirus, quali nuovi sforzi sono necessari per preparare i sistemi sanitari alle numerose sfide?” È l’interrogativo posto al World Economic Forum (Wef). Che ha preso il via quest’oggi, lunedì quindici gennaio, nella cittadina svizzera di Davos. La malattia di cui si discuterà tra due giorni è fortunatamente frutto dell’immaginazione. O meglio (peggio), di ciò a cui si potrebbe realmente andare incontro. Non è catastrofismo. Parlarne, anzi, in termini di prevenzione non può che essere positivo. E pure a catastrofe avvenuta, nella malaugurata ipotesi: in un mondo lacerato da conflitti e da crisi senza soluzioni, dalle divisioni, sino al pericolo di una guerra estesa tra i continenti, la lotta alla nuova pandemia potrebbe ricompattare la stessa umanità. Proprio come accadde contro il Covid.

La nuova pandemia, non troppo ignota

Gli scienziati ritengono che il rischio sia accresciuto dalla crisi climatica, dai crescenti cambiamenti dell’ambiente, e dallo sviluppo delle armi biologiche. È plausibile segnatamente che, in considerazione della crescita rapida della resistenza dei batteri agli antibiotici, la prossima “malattia X” sia un’infezione batterica, tra quelle che all’umanità sono già note. Gli avvertimenti su quanto potrebbe accadere in un futuro non troppo remoto sono condivisi dall’Oms. Dal suo direttore Tedros Ghebreyesus, il quale figura tra i relatori del focus, insieme al Presidente e amministratore delegato della multinazionale Royal Philips, e al Presidente del consiglio di amministrazione di AstraZeneca. Gli stessi converranno sulla necessità di lavorare sui vaccini anticipatamente. Perché nulla si improvvisa nella ricerca – non sono nati dal niente neppure i vaccini “sperimentali” anti Covid.

Non solo ambiente

Al centro del Forum economico ci sono in primo piano la guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente. All’evento, giunto alla 54esima edizione, sono attesi 2.800 partecipanti, tra cui decine di capi di Stato e di governo; esperti, rappresentanti di organizzazioni internazionali e di società farmaceutiche. Gli incontri sui vari temi si susseguiranno sino al diciannove gennaio. Centoventi sono i Paesi rappresentati all’appuntamento internazionale che si tiene per consuetudine nella seconda o nella terza settimana del primo mese dell’anno, a cura dell’organizzazione svizzera no profit, chiamando a raccolta la politica mondiale e l’élite imprenditoriale. I riflettori quindi saranno accesi anche sulla nuova pandemia capace di scuotere il mondo. Sulla malattia alla quale non è stato dato ancora un nome. E sebbene non siano definiti i contorni, i sintomi e la causa della stessa, l’agente patogeno, la questione si pone come presupposto alla realtà da affrontare con responsabilità e trasversalmente. Per rifare memoria del primato della natura sull’uomo.

Genitori che maltrattano i figli per conquistare follower: la follia che corre su TikTok

Disposti a tutto pur di avere visibilità sui social. Pure di fare scherzi spaventosi alle vittime, ai loro figli piccoli, per fare incetta di visualizzazioni, per conquistare follower su TikTok: sono i genitori che realizzano video virali con questo scopo. Ai bambini possono gettare in faccia qualcosa. Una fetta di formaggio, ad esempio, o in testa un uovo, per farli smettere di piangere o per suscitare la loro reazione. Noncuranti dei veri e propri traumi ai quali gli stessi possono andare incontro.

IL CATTIVO ESEMPIO SU TIKTOK – A denunciare questa moda è il quotidiano spagnolo El Pais, che riporta il parere degli esperti. “Non solo questi genitori abusano fisicamente ed emotivamente dei loro figli attraverso la vergogna, il ridico e l’umiliazione, ma farlo pubblicamente significa sbandierarlo al mondo”, dichiara Joanne Broder, membro dell’American Psychological Association, psicologa ed esperta di relazioni sane con la tecnologia e la presenza sui social media. Insomma, queste persone, che vorrebbero porsi come modello vincente, agli occhi di sconosciuti, utilizzano i piccoli come fossero trofei da esibire e da sfruttare per tornaconto. Anziché proteggere la loro privacy sul web.

LE CONSEGUENZE – La realizzazione e condivisione di questi video, spiegano ancora, possono influire sull’autostima dei bambini, facendoli sentire ridicolizzati o sminuiti. Oppure finiscono col causare stati d’animo di ansia o stress. Possono avere, quindi, ricadute negative nel breve e nel lungo termine, tutt’altro che leggere. Si pensi che gli stessi contenuti possono essere condivisi su TikTok e salvati sul pc, girare sui social. Ovvero restare in circolo per un tempo indefinito. Crescendo quei bambini, nell’età della consapevolezza, possono veder influenzato il loro percorso emotivo. Quanto ignorano, questi genitori aspiranti famosi, è che la cultura del rispetto si insegna al più presto alle nuove generazioni, e in tutt’altro modo.

Il ritiro dei ghiacciai e gli eventi meteo estremi: l’alta quota nell’annus horribilis

Tanti record negativi. La sensazione, fattasi certezza, come inconfutabile fatto scientifico, di essere entrati in un processo irreversibile: nel 2023 gli effetti del cambiamento climatico hanno colpito duro. Abbiamo assistito a caldo record e a eventi meteo estremi. Anche in alta quota, dove la temperatura aumenta. Al netto degli episodi che possono vedere la comparsa della neve anche in anticipo rispetto alla stagione – anche questo è un riflesso del riscaldamento globale, dicono.

Cosa sta accadendo in alta quota

“La Alpi e il Mediterraneo sono aree particolarmente sensibili al riscaldamento climatico: qui più che altrove si registra un’accentuata accelerazione degli effetti della crisi climatica che avanza”. A lanciare l’allarme è Legambiente attraverso il direttore generale Giorgio Zampetti e il responsabile nazionale Alpi Vanda Bonardo. I quali aggiungono: “Il monitoraggio costante dei ghiacciai alpini, che stiamo portando avanti da quattro anni con la nostra campagna Carovana dei ghiacciai, oltre che permetterci di documentare e raccontare la riduzione delle masse glaciali ci consente anche di valutarne gli effetti sul territorio montano e di portare in primo piano il tema della convivenza con la crisi climatica”. Insomma, non mente l’alta quota. E permette di guardare la questione dalla giusta prospettiva.

Gli inquinatori

Nei giorni scorsi è stato presentato il rapporto annuale di Germanwatch, Can e NewClimate Institute sulla performance climatica dei principali paesi del pianeta: realizzato in collaborazione con Legambiente per l’Italia, i dati che contiene non restituiscono un quadro rassicurante. Proprio per niente. Il Belpaese, 44esimo, arretra di ben quindici posizioni in classifica, nella quale le prime tre non sono state attribuite: nessuno dei Paesi presi in considerazione (63 più l’Unione europea) ha raggiunto la performance necessaria per contribuire a fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di un grado e mezzo. Va ricordato che gli stessi Paesi rappresentano oltre il 90 per cento delle emissioni corresponsabili del cambiamento del clima. Il più grande inquinatore è la Cina. La quale rimane al 51° posto in classifica.

Le conclusioni

I numeri mettono a nudo l’inerzia della politica nel fronteggiare la crisi. Non solo si fa nulla, o poco, ma non se ne parla neanche abbastanza o nei giusti toni attraverso gli organi di informazione. Pensiamo alla ilarità di quanti si godono le belle e calde giornate del post autunno. Al mare o in alta quota. Giornate che dovrebbero essere meteorologicamente brutte. L’obiettivo di ridurre le emissioni del 65% entro il 2030 è lontano dall’essere raggiunto. Per invertire la rotta appare fondamentale il contributo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili. Insistere su quest’ultime, congiuntamente alla drastica riduzione dell’uso dei combustibili fossili. Non ci sono valide alternative.

Gaza, lo scenario è apocalittico. Ma non se ne può parlare

La denuncia era arrivata da Lynn Hastings. La quale aveva parlato di situazione apocalittica venutasi a creare a Gaza. La pronta risposta di Israele è stata la revoca del visto della donna, coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite. Il provvedimento si colloca nella condotta diffamatoria fatta di abusi verbali e intralcio al lavoro delle organizzazioni e dei funzionari Onu. Così, anche in questo modo, Israele dimostra totale disprezzo per le Nazioni Unite, per il diritto internazionale e per le vite dei palestinesi: lo dichiara l’ambasciata di Palestina in Italia.

Cosa sta accadendo a Gaza

Le truppe dell’esercito israeliano hanno circondato la città di Khan Younis con l’obiettivo di smantellare il centro di comando di Hamas nel Sud della Striscia. I bombardamenti si fanno martellanti: solo nelle ultime ore l’aviazione israeliana ha colpito circa 250 obiettivi nell’enclave. A essere presi di mira sono tunnel e pozzi sotterranei. Oltre a ordigni esplosivi e armi.

Una catastrofe umanitaria

Un milione di sfollati. A piedi o in motocicletta, stipati nei carretti, oppure ammucchiati sui tetti delle loro auto insieme ai bagagli, a fuggire verso Sud sono in migliaia. Il responsabile degli aiuti umanitari dell’Onu ha quindi parlato di situazione apocalittica riferendosi alla impossibilità di svolgere significative operazioni umanitarie. Colpa della campagna militare israeliana, che non si cura di proteggere i civili in fuga da Gaza.

Il bilancio delle vittime palestinesi ha raggiunto e superato quota 16mila. Tanti ne sono morti dall’inizio della guerra, dichiara Hamas – donne e bambini più del 70 per cento. Chi resta soffre anche la carenza di acqua potabile. Il quadro è aggravato dalle conseguenze della crisi climatica. Le falde acquifere, infatti, hanno risentito dell’innalzamento del mare e dell’acqua salata, riferisce la Banca mondiale. Crisi climatica e guerra sono quindi un connubio micidiale. Che non può essere ignorato dalla comunità internazionale.  

Essere pagati per mangiare un gelato dopo l’altro: i lavori che gratificano

Per avere un buon lavoro bisogna studiare. Per essere persone migliori, certamente; ma per campare in questi tempi è meglio fare l’influencer, lo youtuber, o altri lavori bizzarri. Che possono essere gratificanti e, più di una professione intellettuale, remunerativi. Uno di questi è capitato a Paloma Pozanco. La quale ha 25 anni, spagnola di Cadice, e prima di questa esperienza (mangiare il gelato) non aveva mai firmato un contratto di lavoro – ha studiato Legge e sta preparando concorsi.

L’offerta della Nestlé- “Essere pagati per mangiare un gelato dopo l’altro e per di più pagare i contributi previdenziali è incredibile. È un lavoro da sogno”. Così questa giovane donna commenta la mansione che può mettere nel curriculum. Un’occasione da non rendere unica: “Ripeterei l’esperienza un milione di volte”. Immaginiamo che a pensarla in questo modo non sia l’unica. Paloma, infatti, aveva risposto a un annuncio postato su Infojobs lo scorso ottobre, al quale si erano candidati 49.584 persone – un numero record. La “professione” richiesta era quella di tester del gelato Maxibon della Nestlé. Figura che possa assaggiare il gelato che la multinazionale svizzera lancerà nel 2024. La prima persona esterna, che possa fare da cavia, potremmo dire.

L’esperienza fatta dalla giovane le ha fruttato mille euro. Per soli due giorni di lavoro: uno svolto da casa, l’altro in un giardino lontano dalla sua abitazione. Dopo aver degustato il prodotto lo ha recensito. Le sarà piaciuto? Una pillola amara, quel gelato remunerativo, non è stata di sicuro.

Dal gelato alla musica: il “cool jobs”- Un’offerta simile è la ricerca di un tester per il Wizink Center. Persona che dovrà assistere ai concerti di artisti spagnoli, come Melendi e Aitana Lopez: l’obiettivo è migliorare il rapporto tra cantanti e fan. L’impegno stavolta dura tre giorni e frutta sempre 1.000 euro. L’offerta viene sempre da Infojobs, che mette in evidenza il “cool jobs”, attirando migliaia di candidature. I lavori collocati in questa iniziativa saliranno a cinque nel prossimo mese.