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Undici anni con Francesco: il coraggio di predicare e praticare la pace

Le sue parole sono state fraintese e criticate. Non da tutti, in verità – larga parte dell’opinione pubblica deve essere dalla sua parte. Non c’è niente di nuovo ma è sempre rivoluzionario quanto ha detto papa Bergoglio sulla guerra in Ucraina. Sono undici anni infatti (tra poco, mercoledì prossimo 13 marzo, ricorre l’anniversario del Pontificato) che Francesco parla di pace, con la forza e con il coraggio di chi sa andare controcorrente, se necessario. Più di undici anni che il religioso parla di amore e di fratellanza universale. E la pace non si costruisce con le armi.

Il coraggio di negoziare

Il papa usa il termine bandiera bianca a indicare la cessazione delle ostilità. Lo ha precisato Matteo Bruno, direttore della sala stampa della Santa sede, dopo l’intervista rilasciata da Francesco alla Radio televisione svizzera, due giorni fa. Parole che sono state strumentalizzate in una scia polemica inarrestata. Quanto richiesto, auspicato, dal pontefice è la tregua da raggiungere (dopo tante bombe, vittime e ostilità) attraverso il coraggio del negoziato. “Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore: la Turchia si è offerta per questo, e altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”, ha detto papa Bergoglio alla stessa Rsi. Le sue dichiarazioni vanno contestualizzate in tempi di crisi e di violenze generalizzate. La sua missione resta quella di moltiplicare non l’angoscia, ma la speranza.

L’escalation, il rischio da scongiurare

La violenza genera altra violenza. L’incidente, dietro l’angolo; e oltre al suicidio di un Paese devastato, il pericolo dell’allargamento del conflitto in Ucraina con il coinvolgimento della Nato è reale, sino al rischio di una terrificante guerra nucleare. Pensiamo alle recenti dichiarazioni del Capo di Stato della Francia Emmanuel Macron o alle esercitazioni della Nordic Response propedeutiche a una risposta o un’azione militare a sostegno del Paese invaso. Intanto, il presidente ceco Petr Pavel ha già dichiarato che le truppe della Nato potrebbero svolgere attività di sostegno direttamente sul territorio dell’Ucraina. Perché questo non violerebbe alcuna regola internazionale. Sebbene ci sia da fare una netta distinzione tra il dispiegamento delle truppe da combattimento e l’eventuale utilizzo di altre in attività di cosiddetto appoggio, nelle quali l’Alleanza ha già esperienza, questa mossa potrebbe essere mal interpretata da Mosca. Ovvero letta come segnale di una escalation che bisogna avere invece il coraggio di arrestare.

“Giornata della Memoria” tra antisemitismo e genocidio del popolo palestinese

Quest’anno se n’è parlato con largo anticipo. Più degli scorsi anni, a causa dello scenario di crisi internazionale.  Ed è un bene, che il tema sia trattato attraverso dibattiti, incontri, film in televisione. Perché la Shoah al centro della Giornata della Memoria è stata un’infamia nel cosiddetto secolo degli Stermini. Ma quello perpetrato ai danni del popolo ebraico è grave quanto il genocidio del popolo palestinese, del quale il governo israeliano si sta macchiando, agendo impunemente. Nessuno è esente da colpe. La “pulizia etnica” della Palestina ad opera dei governi israeliani con la complicità dell’Occidente, perdura da oltre quarant’anni: lo denuncia lo storico israeliano Ilan Pappé nel suo libro La prigione più grande del mondo.

Giornata della Memoria: tutti uniti nella condanna

Non è mai stata retorica. L’obiettivo della Giornata della Memoria (27 gennaio) resta testimoniare, ricordare, e meditare sui tragici avvenimenti che colpirono l’Europa nella prima metà del Novecento: la condanna va contro il sistema dello sterminio di massa, degli ebrei e non soltanto. Hitler e Mussolini ne furono i maggiori responsabili. Ma quanto avvenuto negli anni successivi alla prima guerra mondiale fu alimentato da un consenso largo – si obbediva per paura o per apatia morale. Le vittime della Shoah (catastrofe) vanno ricordate attraverso l’impegno costante a fare in modo che simili e irrazionali atrocità non abbiano a ripetersi mai.

Il potere della Musica

Un film da rivedere sulla Shoah è “Il pianista” di Roman Polansky. Opera di successo e intensa che, tratta dal romanzo di Wladyslaw Szpilman, ci interroga sulla devastazione, sull’orrore e sulla miseria portate dalla guerra. Ma  il pianista interpretato da Adrien Brody magistralmente lascia germogliare anche e soprattutto il seme della speranza. È il potere della Musica che si erge sopra tutto, che zittisce gli orrori della guerra, e alla quale si deve inchinare anche il più empio, nell’ascolto con deferenza.

27 ottobre, il nostro No alla pseudocultura della violenza e dell’odio

Il popolo della pace chiamato a raccolta. Una giornata, quella di venerdì prossimo 27 ottobre, che vuole essere un inno alla Vita attraverso la mobilitazione: in tutta Italia si scende in piazza e ci si riunisce nei luoghi di aggregazione per chiedere la pace laddove la guerra, feroce, inattesa, si è fatta protagonista negli ultimi giorni. Ovvero in Israele e in Palestina. Perché alle guerre, ai fiumi di sangue, che sono una costante nella storia, l’uomo evoluto si ribella.

Le iniziative

In prima linea c’è Amnesty International Italia. Che chiede il rispetto dei diritti umani, la protezione dei civili, e lo stop della violenza in Palestina e Israele. L’iniziativa è condivisa da Aoi (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale) e da tante altre realtà della società civile. Segnatamente questo è l’appello rivolto alle istituzioni italiane: rimettere al centro dell’azione politica proprio il rispetto dei diritti umani e della vita delle persone. Tra i tanti eventi, appuntamenti pubblici e incontri, va segnalata la lectio magistralis che il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury terrà a Trieste, in occasione del 75esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’intera settimana è caratterizzata dall’attivismo nelle principali città d’Italia. Dai flash mob ai seminari, dalle mostre a tema ai workshop agli stand informativi e proiezioni passando per i momenti conviviali: tutto questo rientra nella campagna #IoMiAttivo

27 ottobre di digiuno e preghiera

Un pacifista come papa Bergoglio non può che sostenere la grande mobilitazione. Infatti, per lo stesso 27 ottobre, è prevista una giornata di digiuno e preghiera: le armi del credente. La ricorrenza è l’anniversario dell’Incontro interreligioso di Assisi del 1986. Il momento di raccoglimento si terrà a San Pietro alle ore 18.00. E potrà coinvolgere “fratelli e sorelle di varie confessioni cristiane, appartenenti ad altre religioni, e quanti hanno a cuore la causa della pace”. Ovvero coloro che non accettano il sacrificio di vittime innocenti.

Tacciano le armi

L’invito, il monito, del pontefice è ad ascoltare il grido di pace dei poveri, della gente. Dei bambini particolarmente. Perché la guerra non risolve alcun problema, denuncia Francesco: semina solo distruzione e morte. I riflettori dei media si sono spostati dall’Ucraina al Medio Oriente. La condanna va estesa a tutti i conflitti che sconquassano il mondo, per scongiurare anche l’allargamento di quei fronti bellici già aperti. Il pensiero va alla martoriata Ucraina, sempre. Al rischio che i conflitti diventino guerre di logoramento. Perché per arrestarli, in sostanza, non si fa niente. La priorità intanto è evitare la catastrofe umanitaria a Gaza. La stessa Amnesty International denuncia e documenta gli attacchi illegali compiuti dalle forze israeliane che hanno causato, tra i civili, massicce perdite: chiunque compia simili azioni, l’aggressore come l’aggredito, va messo sotto processo per crimini di guerra. Il numero di morti e feriti tra i bambini è sconcertante. Si contano almeno 2.360 vittime negli ultimi 18 giorni, denuncia l’Unicef attraverso il direttore regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa Adele Khodr.

Modello Coluccia: la Chiesa che ci piace sa dare fastidio

È il prete simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità a Roma. Ma non chiamatelo eroe: don Antonio Coluccia è stato vittima di una intimidazione, perché fa il proprio dovere. L’episodio si è verificato durante una marcia per la legalità in Via dell’Archeologia. Nel pomeriggio di ieri, martedì scorso 29 agosto, un uomo ha cercato di investirlo in scooter per le strade di Tor Bella Monaca, dove si stava tenendo la manifestazione. L’aggressore non è andato a segno. Infatti, si è frapposto un agente della scorta, il quale ha reagito sparando e ferendolo la stessa persona. Un grande spavento per il sacerdote salentino originario di Specchia, che ha confidato di aver avuto paura. Il responsabile dell’aggressione era un bielorusso 28enne già noto alle forze dell’ordine. In quanto aveva precedenti per droga – dopo una colluttazione è stato poi trasportato al Policlinico Casilino.

Don Antonio Coluccia, la missione ininterrotta

“L’aggressione non mi fermerà. Continuerò la mia battaglia che sto portando avanti contro la criminalità che controlla le piazze di spaccio a San Basilio, Quarticciolo e Tor Bella Monaca”. Così don Antonio Coluccia ha commentato l’agguato che poteva costargli la vita. Il suo lavoro, portato avanti da venticinque anni contro la criminalità organizzata e lo spaccio di droga (vive sotto scorta), non può piacere a chi delinque. Soprattutto, non viene visto di buon occhio l’attenzione del religioso verso i più giovani, i quali vengono sottratti alla cultura della morte, attraverso le numerose iniziative in cui vengono coinvolti.

Sulla scia di don Pino Puglisi

Don Antonio Coluccia rimanda a un’altra grande figura di riferimento del passato non troppo remoto. Il sacerdote che ha combattuto la mafia in Sicilia, a Palermo: don Pino Puglisi. Il quale amava proprio i giovani. E per toglierli dalla strada, dalle mani della mafia che li reclutava sin da giovanissimi, si impegnò, con la collaborazione di un amico e di un gruppo di suore – ricordiamo il film di Roberto Faenza Alla luce del sole (2005) che per la prima volta in televisione ne raccontò la storia. Don Pino Puglisi fu minacciato e picchiato. Infine assassinato. La determinazione del prete, che ha portato avanti la propria missione, è il segno della perseveranza che non trova ostacolo neanche di fronte al pericolo incombente della morte.

Così don Antonio Coluccia lascia intendere tutta la propria inarrestabile forza. L’auspicio è che l’esito sia diverso: che non venga lasciato solo. Se non altro, lo stesso ha ricevuto le telefonate del ministro Matteo Piantedosi, del primo cittadino di Roma Roberto Gualtieri, del Capo della Polizia Vittorio Pisani e di altre autorità. Compresa la solidarietà degli esponenti del mondo della politica. L’episodio può avere una duplice lettura… Come ha dichiarato il Presidente del Municipio VI delle Torri Nicola Franco, quanto accaduto dimostra che gli sforzi di don Coluccia “danno fastidio in questa zona”. Viva la Chiesa e gli uomini di Dio che scelgono la strada della lotta educativa e non quella della compromissione.

Staffetta dell’Umanità, l’Italia che non vuole più inviare armi ma messaggi di pace

Stop alla guerra e all’escalation che conduce a un nuovo conflitto mondiale o nucleare. Ovvero cessate il fuoco, in Ucraina, e avvio di un negoziato: è l’obiettivo della Staffetta dell’Umanità ideata da Michele Santoro. Un’iniziativa utile a far sentire la voce di chi crede nella pace. E quand’anche fosse inutile, perché ai piani alti inascoltata, la manifestazione da realizzare rappresenta una nota di merito, elemento non aggiuntivo ma consustanziale al sistema democratico. Al dibattito che dovrebbe veder confrontarsi tutte le parti in un Paese civile e libero come l’Italia.

Il percorso

Quattromila chilometri e migliaia di persone in strada a camminare. Un serpentone umano che, domenica 7 maggio, alle ore 11.00, collegherà Aosta a Lampedusa, ovvero tutte le regioni italiane in contemporanea. Transetti da 25 km andranno a costituire il tracciato – per partecipare sarà possibile percorrere anche un solo chilometro. Il percorso della staffetta è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. La carovana sarà segnata dai colori dell’arcobaleno.

L’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità

I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa ad armi di distruzione sempre più potenti. Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di migliaia di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. È quanto si legge nell’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità. Gli stessi chiariscono, tra l’altro, che Putin è sì il responsabile dell’invasione, “ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti”. Mentre la missione dell’Occidente che si batte per esportare la democrazia nel mondo viene bollata come una menzogna reiterata. Della quale la stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione è responsabile.

Da Massimo Cacciari a Fausto Bertinotti, da Luigi De Magistris a Leoluca Orlando, da Riccardo Scamarcio a Elio Germano, ad Anna Falcone e Moni Ovadia: tanti gli esponenti del mondo politico, culturale o dello spettacolo che hanno firmato l’appello per la pace. Tra questi, naturalmente, il giornalista Michele Santoro. Le diverse sensibilità sono chiamate in causa per sensibilizzare sull’emergenza legata alla guerra in Ucraina e insieme su quella climatica. Due emergenze che sono intrecciate. Perché il massimo dispiegamento di energie e di risorse dovrebbe essere concentrato nell’azione di contrasto al fenomeno che minaccia la sopravvivenza dell’umanità e del creato: il cambiamento climatico, i cui effetti saranno sempre più devastanti – si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Per aderire all’iniziativa del 7 maggio scrivere alla mail staffetta.pace@gmail.com specificando nome e cognome, numero di telefono e località di residenza. Il lettore può cliccare qui per individuare il transetto da percorrere lungo il tracciato.

Covid, l’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia

Una notizia che non deve passare sottotraccia: tra pochi giorni scadranno le ultime restrizioni usate nell’azione di contrasto al virus terribile. Anche negli ospedali si potrà fare a meno della mascherina. Il 30 aprile, infatti, sarà l’ultimo giorno in cui non si potrà accedere alle strutture sanitarie senza indossare sul volto lo strumento protettivo, che nel pieno della pandemia ha salvato tante vite. E successivamente lo ha fatto nell’azione sinergica con il vaccino anti Covid. L’auspicio è di ritardare il più possibile l’arrivo di una nuova inevitabile pandemia, evento che si ripete nella storia.

Abbiamo atteso a lungo la luce in fondo al tunnel. Quando la televisione pullulava di virologi, esperti che studiavano l’andamento della curva epidemiologica, e il principio della gradualità ispirava le azioni del Governo nell’allentamento delle restrizioni. Rischiamo di non vederla adesso, la luce in fondo al tunnel, perché presi da altre preoccupazioni, come il vicolo cieco della guerra in Ucraina. L’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia. O quantomeno il ridimensionamento forte della malattia, ospite che resta sempre sgradito, col quale bisogna convivere: l’Europa sta andando in questa direzione, con l’abbattimento delle ultime restrizioni, cadute già in Germania e in Portogallo, nei giorni scorsi. Il ritorno alla cosiddetta normalità significa potersi guardare in faccia e cercare l’altrui volto.  Cercare e non temere più le folle.

Sappiamo bene che ospedali, studi medici e strutture di riposo per anziani erano gli ambienti più a rischio per la circolazione e la trasmissione del virus. Il pericolo persiste finché l’Organizzazione mondiale della sanità non dichiara la fine della pandemia – potrebbe avvenire nei prossimi mesi. Caduto l’obbligo, l’utilizzo della mascherina sarà opportuno in particolari situazioni: nei reparti di Pneumatologia, o in strutture che assistono pazienti molto fragili, come i malati oncologici. Sui casi specifici potrebbero essere i direttori sanitari a decidere.

La strage degli innocenti, quando gli Alleati bombardarono Alessandria

Per non dimenticare. Per ricordare a noi stessi, in tempi di conflitto ucraino, e di minacce nucleari, che la guerra è sempre un incubo da scacciare: esattamente 78 anni fa, il 5 aprile, a venti giorni dalla fine della seconda guerra mondiale (1939-1945), gli alleati bombardarono la città di Alessandria. Si trattò dell’ultimo bombardamento alleato sull’Italia. Gli angloamericani lo effettuarono nel tentativo di sbarrare la strada ai tedeschi in ritirata. L’evento suscitò sentimenti di indignazione tra la popolazione, oltre a provocare un surplus di sofferenza, quando il conflitto stava per terminare.

Alessandria sotto le bombe

La città, che sembrava poter essere risparmiata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, finì tra gli obiettivi dell’operazione “Strangle”. Perché il nodo ferroviario di Alessandria risultava essere fondamentale per i rifornimenti della Wehrmacht. Per questo la città fu bombardata nel 1944: dapprima il 30 aprile al quartiere Cristo, attacco che fece 239 vittime e centinaia di feriti e ingenti danni (fu distrutto lo storico teatro municipale e l’antico Palazzo Trotti-Bentivoglio, sede di biblioteche, musei e archivi civici), poi a più riprese fino al mese di settembre, quando risultarono distrutte 360 case (più di 1500 gli edifici danneggiati). A giugno gli ordigni avevano raggiunto i ponti dei fiumi Tanaro e Bormida. Prima di quei bombardamenti si contavano 12 morti. Vittime di un errore del bombardamento britannico che, anziché colpire Torino e Milano, raggiunse cascina Pistona e il sobborgo di Litta Parodi. Fu colpita inoltre una casa colonica a Cascinagrossa presso San Giuliano Piemonte. Le prime bombe caddero il 14 agosto 1940: le vittime furono 14, dei quali 3 bambini e 5 soccorritori.  

Il conflitto che impatta sulla comunità

La città fu segnata dai tragici eventi legati alla seconda guerra mondiale: dai bombardamenti all’occupazione tedesca, dalle persecuzioni degli ebrei alla Resistenza. Tornando alle bombe, l’ordigno sganciato il 5 settembre 1944 sventrò il rifugio antiaereo del rione Cittadella, in via Giordano Bruno, dando la morte a 39 civili. Possiamo immaginare l’impatto di quell’azione su chi credeva di stare al riparo. Di venti vittime non furono trovati neanche i resti.

Il 5 aprile

Le bombe degli aerei angloamericani che caddero quel giorno su Alessandria colpirono la cattedrale. Fecero numerose vittime, tra diversi rioni popolari e nel centro abitato, sebbene l’obiettivo fosse la stazione ferroviaria: 160 civili, 41 dei quali erano bambini (28), suore e insegnanti dell’Istituto Maria Ausiliatrice. Furono colpite alcune chiese, oltre alla cattedrale, l’ospedale infantile “Cesare Arrigo” e l’asilo di via Gagliaudo. Le case rase al suolo furono 45 e oltre 600 i feriti. Un attacco brutale, al punto che il comando provinciale dei partigiani del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) inviò una nota di protesta al Comando Alleato in Italia. A distanza di tanti anni, la ferita resta aperta per la città di Alessandria.

La bellezza di un funerale senza lacrime

Quando un uomo di Dio ci lascia, il sentimento dominante è la serenità. Quella di chi ha vissuto nella fede sino all’ultimo istante. Allora, i travagli che non conoscevamo, in Benigno Luigi Papa, hanno trovato la via della pace. E quella personalità mite generosa riservata ha donato proprio la serenità ai fedeli che hanno riempito la Concattedrale per il suo funerale. Il fine studioso e uomo di preghiera, capace di penetrare, insegnare le Sacre Scritture, e soprattutto di viverle – ha ricordato nell’omelia l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro – ha messo la parola di Dio al centro del proprio cammino esistenziale ed esperienza pastorale. Una scelta condivisa dalla fiumana di sacerdoti che hanno preso parte alla stessa funzione in una chiesa affollata. C’era il cardinale, Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna; c’erano religiosi e laici provenienti anche dalla Calabria. E il sottoscritto che ha assistito alla bellezza di un funerale senza lacrime. Così, con sobrietà, la città di Taranto ha dato l’ultimo saluto all’arcivescovo emerito, spirato nella notte del 6 marzo.

Chi era Benigno Luigi Papa

Teologo di grande spessore, veniva dalla provincia di Lecce (Spongano), dove nacque il 25 agosto 1935. Fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Bari Enrico Nicodemo nel marzo 1961. È stato alla guida della diocesi di Oppido-Mamertina-Palmi, arcivescovo di Taranto, vicepresidente per il Sud Italia della Cei e presidente della commissione episcopale per il clero e la vita consacrata e presidente della commissione episcopale per la famiglia. Quanto al legame con la città dei due mari, come ricorda Silvano Trevisani, subentrando a Salvatore De Giorgi egli fu pastore negli anni difficili di Taranto, quando c’era da contrastare la guerra di mala. Seppe opporsi sollecitando la reazione della comunità. Poi con una questione gigantesca si è dovuto confrontare. Quella ambientale, con la catastrofe che ha tanti corresponsabili. Il coinvolgimento nell’inchiesta “Ambiente svenduto” non lo poteva turbare. La riprova sta proprio nel suo funerale, in ciò che ha lasciato nei fedeli che gli erano affezionati. Nei non credenti che gli riconoscevano la mitezza e lo spessore culturale.

Il Quarto Stato oggi: migranti. Il fallimento della speranza

La tragedia ha occupato le prime pagine dei giornali, in mezzo agli altri accadimenti, gli articoli di fondo delle firme più autorevoli e più attente, l’apertura dei telegiornali. Ma quanto siamo presi dall’ultima strage di migranti? Quella avvenuta a due passi dalla nostre case – 150 metri dalla riva del litorale di “Steccato” di Cutro, a Crotone. Non abbastanza: la risposta che potremmo darci. A mio parere, non per egoismo o indifferenza, ma per la nostra umanità, in senso stretto: le immagini che non vogliamo vedere rappresentano il  fallimento della speranza. Ovvero di ciò che muove il cammino esistenziale. Ci viene in nostro aiuto l’Arte. Ad aprirci gli occhi, a motivare il nostro stesso atteggiamento, facendoci entrare in empatia con lo stato d’animo dei più sventurati è il dipinto di Giovanni Iudice intitolato “Il Quarto Stato oggi: migranti”. L’artista vi rappresenta il doloroso destino degli emigranti africani approdati sulle coste siciliane.

La lezione di Vittorio Sgarbi. Il destino dei migranti

Così il famoso critico d’arte, che in una recente lectio su “Europa e Mediterraneo” ha presentato il dipinto, scrive dello stesso: “Una singolare testimonianza di profondissimo impegno individuale, pur nell’ambito di convincimenti comuni, e meditando all’impegno etico di Antonio Lòpez Garcia, è quella maturata da Giovanni Iudice, pittore in equilibrio fra realismo magico e neorealismo, al quale si deve l’opera più impegnativa dipinta in Sicilia dopo La Vucciria di Renato Guttuso”. “Un’opera corale – chiarisce Vittorio Sgarbi – nella quale si rappresenta il destino degli emigranti dall’Africa sulle coste siciliane tra Lampedusa e Gela. Quella umanità rassegnata, incapace di decidere il proprio destino, rappresenta il fallimento della speranza cento anni prima evocata nel Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo”.

“Il cammino percorso da quel popolo si è interrotto. E il viaggio verso la speranza si è rivelato, per il popolo dei disperati, un viaggio verso la morte o verso il nulla”. Questo il messaggio, che l’Autore “racconta con freddezza, senza apparente coinvolgimento emotivo”. “Per il suo valore simbolico, l’opera è stata esposta nelle sale dell’Assemblea Regionale Siciliana a Palazzo dei Normanni”, ci ricorda Vittorio Sgarbi. La rassegnazione dei migranti è il nostro senso di impotenza rispetto al ripetersi di simili tragedie nel Mar Mediterraneo e al fallimento delle politiche Ue. Sentimento che non proviamo, invece, guardando alla guerra in Ucraina, laddove prevale l’indignazione e la speranza di poter cambiare qualcosa attivamente attraverso l’invio di armi. O nella ricerca di vie della pace, ancora meglio.

Al mare a novembre: non è un dramma il caldo fuori stagione

I catastrofisti parlano del cambiamento climatico. Che c’è, è in atto, con ogni evidenza, nell’anno più caldo dal 1800. Ma non si tratta di una anomalia inedita. Nessun dramma, allora, se potremo andare ancora al mare, secondo le previsioni. Almeno nei primissimi giorni del mese nuovo. Godiamoci queste belle giornate, il sole che dona benessere, che attiva i neuroni: per combattere proprio il cambiamento climatico servono, in un’azione comune, sinergica, le migliori risorse. Stare in pace con se stessi per assicurare un futuro alle persone con cui condividiamo il mondo.

Lo hanno definito Monster, l’anticiclone di Halloween che si farà valere nei prossimi giorni. La fase stabile dovrebbe durare fino al quattro novembre. L’unica insidia, nelle prossime ore, potrebbe arrivare dalle nebbie sulle pianure del Nord. Altrove caldo e cielo sereno su tutta la Penisola. Temperature comprese tra 27 e 30° C. Oltre alle ricadute negative del cambiamento climatico, nel medio e lungo termine, alle frequenti alluvioni (fenomeni localizzati che non si possono prevedere), a preoccupare adesso è l’assenza di precipitazioni al Settentrione: mai era piovuto così poco. In particolare al Nordovest. Tra le regioni più colpite ci sono il Piemonte, la Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta.

Se in Italia si boccheggia, quasi, nelle ore centrali del giorno, anche in Spagna sono previsti 32 gradi a fine ottobre. Ovvero temperature record per il perdurare della stagione estiva che va avanti da sei mesi. Fatta eccezione per una piccola parentesi a settembre, quando anche in Italia le temperature sono scese persino sotto la media, sembra che l’autunno meteorologico non ne voglia sapere di entrare in vigore. Dalla Spagna alla Grecia passando per la Francia e la Germania, oltre al Belpaese, l’intera Europa occidentale è interessata da questa ondata di caldo anomalo. Nel resto del mondo, altro aspetto legato al cambiamento climatico sono le nevicate precoci: l’ondata di gelo che ha colpito le aree orientali dell’America, nei giorni scorsi.

Una storia di resilienza e di passione autentica

Inaugurata a Taranto la “Ciclofficina Conte”, il primo servizio a domicilio per la riparazione delle biciclette

“Io la bicicletta la sento con le mani”. Così Armando Conte prova a definire il rapporto che ha con la bici da corsa: per pedalare serve la parte inferiore del corpo, ma non solo. Soprattutto se in bicicletta ci vai da tanti anni – più di venti. Serve ogni organo. Lui (tarantino, classe 1984) l’ha conosciuta nell’estate del ’98, ai tempi del ciclismo pre-moderno, quando le gesta ineguagliabili del Pirata Marco Pantani facevano innamorare di questa disciplina tanti sportivi; non l’hai mai lasciata salvo prendersi delle pause. Adesso ha aperto una ciclo officina a Taranto. Il negozio si trova in viale Magna Grecia 69, ma è mobile, itinerante. Armando è il primo a offrire un servizio a domicilio nella città che vuole fare della mobilità sostenibile e della cultura della bicicletta un vettore di crescita. Avendo viaggiato e soggiornato al di fuori della città dei due mari, il ciclista ha avuto modo di formarsi, di accrescere il proprio bagaglio di conoscenze, e di mettere al servizio della comunità ionica le proprie competenze. Ha un trascorso da agonista tra le file del Gruppo sportivo “Marangiolo Taranto”. Fisico da scalatore, lunghe leve adatte anche a fare il ritmo quando la strada non pende, ha conosciuto la vittoria, le sconfitte, i momenti di prova. Una pedalata agile che conserva quando rimonta in sella ed è lontana la forma migliore.

Ha provato ad uscire dal suo mondo occupandosi d’altro: si è dato alla ristorazione, aveva una pucceria nel cuore di Taranto, prima di tornare tra le due ruote dedicandosi alla officina e vendita con “South Bike”, esperienza chiusa nel pre-pandemia. Ma il richiamo della bici è sempre più forte. Quella ce l’hai nel sangue, ti scorre nelle vene, e non la puoi sostituire. Per anni è stata la sua fedele compagna, con la quale uscire ogni giorno, con qualsiasi condizione meteorologica, sotto la pioggia o sotto il sole cocente dei primi pomeriggi di luglio o agosto: allenamenti e gare, migliaia di chilometri macinati con metodo, ad acqua e banane, la salita come il pane. Lei non lo ha mai tradito. In corsa non è mai finito a terra il corridore, che sembrava avere le antenne. Sapeva fiutare il pericolo. L’amore per lo sport, inteso come ricerca del benessere e sana competizione è rimasto intatto, al riparo da ogni esasperazione. La cura adesso è offerta a chi possiede una bicicletta attraverso il servizio a domicilio per le riparazioni del mezzo. Qualsiasi tipo di bicicletta (da città, da bambino, da corsa, mbt), monopattini ed anche carrozzine per invalidi.

La Ciclofficina Conte, inaugurata nella serata di mercoledì scorso, rappresenta allora un ulteriore punto di svolta nella vita professionale di chi ha scelto di restare nella propria terra, a beneficio dell’intera comunità ionica. Un’attività che può nascere solo dalla passione. E con la stessa, con perseveranza, va fatta crescere. 

Come un fiore nel deserto: l’invito alla castità di Francesco

Quante coppie arrivano al matrimonio senza aver avuto un rapporto intimo? Conosce la risposta lo stesso papa Bergoglio, che tuttavia, alla comunità dei fedeli e non credenti, indica la direzione, la strada da percorrere… La vera trasgressione oggi è il ritorno alla purezza. Che significa, riscoprire il piacere dell’attesa e della lentezza, della scoperta e della conoscenza; assaporare e non sperperare quel patrimonio immenso chiamato Bellezza. Ecco perché il messaggio di Francesco va letto come un accorato invito e non come un monito. Né un’ingerenza nella sfera privata e nella libertà delle persone che mirano al matrimonio. Arriva in tempi nei quali, come sempre, il credente è chiamato ad andare controcorrente. Non è un ritorno al Medioevo, insomma. La Chiesa romana cattolica, e il successore di Joseph Ratzinger particolarmente, si adeguano ai nuovi tempi senza rinnegare la Parola eterna. La comunità dei credenti ha il dovere di far aprire gli occhi su ciò che più conta.

LE NUOVE LINEE PER LA PREPAZIONE AL MATRIMONIO. “Non deve mai mancare il coraggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della castità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune”. Così il documento per il Dicastero dei Laici traccia l’orientamento. Ne sono coinvolte, in un rapporto dialettico, l’istituzione e le coppie: “Vale la pena di aiutare i giovani sposi a saper trovare il tempo per approfondire la loro amicizia e per accogliere la grazia di Dio. Certamente la castità prematrimoniale favorisce questo percorso”. L’obiettivo è assicurare la solidità del matrimonio. Creare basi solide, perché il castello non cada dopo poco tempo. Il Vaticano intende avere come interlocutori anche le coppie conviventi. E l’astinenza, chiarisce il documento, può essere praticata in alcuni momenti anche nello stesso matrimonio. Naturalmente come libera scelta. Espediente per mantenere accesa la fiamma della passione, che è uno degli ingredienti utili a tenere insieme le coppie.

Mafia e crimini mondiali: l’assuefazione, un rischio da scongiurare

Sono immagini che fanno accapponare la pelle. E quest’effetto devono generare, pur a distanza di anni: ne sono passati trenta esatti dalla strage di Capaci, quando persero la vita il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Allora la rassegnazione era il sentimento dominante. Oggi invece possiamo provare che quello stesso attentato dinamitardo, inteso come il momento più alto della ferocia criminale, ha squarciato l’asfalto dell’omertà e della indifferenza delle quali sono state colpevoli per molto tempo le comunità. Un risultato che va consolidato attraverso l’esercizio della memoria. Perché l’assuefazione rispetto ai crimini compiuti dalla mafia, dalle grandi organizzazioni criminali, e non soltanto (si pensi alle immagini terrificanti che dalla guerra in Ucraina continuano ad arrivare), è un rischio sempre reale.

A rileggere l’ultimo editoriale di Giovanni Falcone emerge lo scoramento e il senso di impotenza, la denuncia di chi sapeva di avere il destino segnato; ma anche barlumi di speranza. Si intitola “Il lento passo della legge” ed è stato pubblicato il 7 gennaio 1992 su La Stampa:

NON sono ancora sbiadite le immagini dell’ennesimo funerale di Stato, toccato questa volta al sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e alla sua sventurata moglie, uccisi dalla mafia. Immagini, è doloroso doverlo ammettere, che ci hanno rimandato una chiara sensazione di “già visto”. Come se fosse stato riproposto un copione scritto da tempo e “buono” per tutti gli omicidi eccellenti, abbiamo sentito autorevoli opinionisti sollevare pesanti interrogativi sull’efficacia con cui le istituzioni combattono, così si dice, la criminalità organizzata nel nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, in particolare, interpretando lo sdegno dell’intera collettività, ha rimarcato la necessità di affrontare in modo serio il problema, prima di dover cedere alla tentazione di ricorrere a leggi eccezionali. Eventualità già “bocciata” da più di un esponente delle istituzioni e della cultura e definita rimedio peggiore del male. Nel bozzetto di prammatica non sono mancate le diatribe tra politici locali e la “ferma e incrollabile decisione” di perseguire esecutori e mandanti della efferata esecuzione mafiosa, rivendicata dalle autorità centrali.

Tutto previsto, dunque. Anche il fatto che tra pochi giorni nessuno si ricorderà più del sovrintendente Salvatore Aversa, come è già stato rimosso dalla memoria collettiva il nome di Antonino Scopelliti o di Rosario Livatino, giudici assassinati soltanto qualche mese fa, e il nome di Antonino Scopelliti o di Rosario Livatino, giudici assassinati soltanto qualche mese fa, e i nomi di tutti gli altri magistrati e investigatori caduti, come si suole dire con pudica metafora, nell’adempimento del proprio dovere.

L’indignazione, così, cede progressivamente il passo all’assuefazione verso crimini indegni di un Paese civile e ci si rassegna all’idea che zone sempre più vaste del territorio nazionale ubbidiscano a regole che non sono quelle imposte dalla legge dello Stato. Nello stesso tempo, tranne isolate eccezioni che rasentano e spesso raggiungono l’eroismo, cresce la disaffezione di magistrati e forze di polizia verso il proprio lavoro. Perde efficacia l’azione di contrasto verso la criminalità, che, di contro, da questa certezza di impunità, riceve sempre più vigore. Eppure c’è chi continua a meravigliarsi ipocritamente della scarsa efficienza dell’azione dell’apparato repressivo, fingendo di dimenticare le quotidiane intimidazioni e le rappresaglie cui vengono ogni giorno sottoposte le forze dell’ordine. Tutto nella più totale e generale indifferenza. Anzi, qualche volta, nella ipocrita negazione di una verità: la lotta alla criminalità non è più un problema di alcune aree del Meridione ma una delle emergenze prioritarie del nostro Paese.

Come non ricordare quanto accade, per esempio, in Puglia, regione fino a poco tempo fa ritenuta immune dal contagio mafioso. Due attentati in pochi giorni contro il palazzo di giustizia di Lecce, che poco allarme hanno suscitato; e, ieri infine, la notizia dell’esplosivo sui binari alle porte della città barocca, che altri lutti non ha provocato solo per un caso. Gli investigatori attribuiscono alla mafia locale la paternità di tali intimidazioni.

Continua a mancare, a nostro avviso, una risposta istituzionale adeguata che faccia comprendere a tutti, e principalmente alla malavita, che quanti, magistrati, poliziotti o anche semplici cittadini si oppongono allo strapotere mafioso, non sono soli ma godono della solidarietà delle istituzioni e di quella società civile alla quale pure si chiede una reazione, per esempio di fronte al dilagare della piaga delle estorsioni. Ma non si può ignorare che, per ottenere una “nuova” solidarietà dai cittadini, lo Stato deve cambiare registro, abbandonando la mentalità burocratica e le tecniche obsolete con cui finora si sono affrontati i problemi legati alla lotta alla mafia per approdare soprattutto ad una “nuova professionalità”.

Le modifiche recentissime dell’ordinamento delle forze di polizia e degli uffici del pubblico ministero sono state adottate appunto per creare organismi agili e moderni in grado di opporre alla malavita efficaci strategie di lotta. Ma bisogna dire con chiarezza che siamo soltanto all’inizio, basti pensare, d’altra parte, che la riforma degli uffici del pubblico ministero non ha ancora esaurito l’iter legislativo. Con queste iniziative si è appena colmato, e solo in parte, il grave ritardo nell’adozione di indispensabili strumenti legislativi per la lotta alla mafia. Sbaglia, dunque, chi ritiene siano stati compiuti decisivi passi in avanti. Adesso viene la parte più difficile: dotare gli uffici di adeguati mezzi logistici e formare le “nuove professionalità”. Certamente non si parte da zero, ma non si può nemmeno parlare di situazione soddisfacente, come confermano i risultati poco esaltanti degli ultimi anni.

La strada è lunga e in salita e non servono scorciatoie di alcun tipo: neppure il ricorso ad eventuali leggi eccezionali. Probabilmente accadrà di trovarsi ancora a dover piangere per lutti di mafia, ma guai se dovessimo lasciarci andare al senso di frustrazione e di impotenza che finora hanno accompagnato le tante, troppe, uccisioni di persone per bene.

Cittadella della Carità: un punto di riferimento, nonostante le criticità

Taranto. La voce della protesta, e quella di chi l’ascolta prendendone le distanze. Due posizioni che devono riconciliarsi, a beneficio dell’intera comunità. Perché la Cittadella della Carità resta un punto di riferimento, presidio indispensabile della sanità locale, nonostante le criticità. Il riconoscimento viene dal Management sanitario. Che con un comunicato ha risposto al sit-in dei lavoratori andato in scena ieri in città, davanti la Prefettura. “Siamo consapevoli delle difficoltà che la Fondazione tutta sta attraversando – riporta la nota – come d’altronde tutto il comparto della Sanità, ma siamo anche consapevoli del percorso in essere del CdA volto a sanare le situazioni di criticità provenienti dal passato”. C’è da considerare il lavoro encomiabile svolto negli ultimi tre anni. I medici della Cittadella infatti, chiarisce lo stesso comunicato, sono stati protagonisti, nonostante la tragedia della pandemia Covid: sono riusciti a mantenere alti tassi di occupazione dei posti letto accreditati sia in Rsa che nella Casa di Cura Arca, elevati livelli di qualità di assistenza sanitaria, tali da garantire il controllo della situazione epidemiologica.

I NODI DA SCIOGLIERE. Dalla parte dei lavoratori, i sindacati – Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Fp, Fials e Ugl. I segretari di categoria chiedono la mediazione del Prefetto per la risoluzione delle questioni che vanno dal piano industriale alla condizione economica dei lavoratori. Sono in 160 ad avanzare uno stipendio, due premi di produzione e una quota di tredicesima. Quanto al futuro della stessa struttura, le rassicurazioni sono arrivate dal Management sanitario che, accreditando il reparto di Cardiologia come punto di riferimento per lo scompenso cardiaco nella città di Taranto, ha parlato di un ampliamento dei posti letto della Rsa. Il processo di rinnovamento è ininterrotto e assicurato anche dall’acquisto di nuova strumentazione capace di far funzionare al meglio la Cittadella della Carità. I risultati ci sono, insomma (tra le iniziative realizzate, la “Stanza degli abbracci”). Ma il pagamento degli stipendi deve essere messo in cima alle priorità.

Terzo settore, come ripartire dalla crisi pandemica: nasce la Rete delle Culture

Dare una risposta concreta alle esigenze degli enti non lucrativi che operano nel settore culturale e sociale. Accompagnarli in questa lunga fase di transizione, facendo in modo di non disperdere quel patrimonio di esperienze che, in ogni parte del Paese, animano le comunità: è l’obiettivo della neonata Rete delle Culture. A volerla, l’associazione Mecenate 90. L’iniziativa è stata condivisa da numerose realtà, come l’associazione no profit “Le cose che vanno International”, fondata e presieduta da Mirko Marangione. Come chiarito dalla stessa Mecenate 90, la Rete delle Culture guarda al complesso tessuto associativo culturale, alle piccole e medie strutture piuttosto fragili, animate anche da volontari. La crisi pandemica ha messo a dura prova i luoghi e le attività culturali. Particolarmente le piccole organizzazioni non profit collocate nelle aree periferiche delle città, che rischiano di non riuscire a ripartire e ad adeguarsi alle innovazioni introdotte dal Codice del Terzo Settore. La Rdc vuole quindi essere punto di aggregazione e luogo di co-progettazione.

Una ventina le organizzazioni che hanno costituito questa nuova realtà nei giorni scorsi; alla guida c’è il presidente eletto Ledo Prato, segretario generale di Mecenate 90, con l’intenzione di raggiungere le cento adesioni di Enti del Terzo settore, e l’iscrizione al Runts. È un progetto in itinere frutto di un lavoro lungo e compartecipato. La mission si colloca “in una fase difficile di attuazione della riforma del Terzo settore, in assenza di indicazioni chiare circa il regime fiscale da adottare per gli Ets”. Quel che è certo è la perdita di numerose agevolazioni fiscali per quelle associazioni culturali che non si iscrivono al Runts. Registro che rappresenta la principale novità del Codice del Terzo Settore. Per tutti i membri, la Rete si propone di essere punto di riferimento, di rappresentanza, e motore di innovazione in un percorso di crescita.

I FONDATORI – Mecenate 90 e Fondazione Trame, Coop. Itinera, Associazione Ecomuseo Casilino, Associazione Europassione per l’Italia, Consorzio Jobel, Associazione Officine Culturali, Coop. La Paranza, Società nazionale salvamento Odv, Associazione Il Meglio della Puglia, Associazione Ctg Val Musone, Associazione 34° Fuso, Associazione delle Arti, Consorzio di Cooperative Oltre la Rete, Associazione Pietre Vive, Ass. Le Cose che Vanno International, Unione delle Pro Loco d’Italia, Coop. Terra Felix, Associazione Tools for Culture.

L’inutile pressing dei sindaci sull’obbligo della mascherina all’aperto

“Se ci fosse un provvedimento nazionale, come abbiamo spiegato al Governo, sarebbe tanto di guadagnato, perché daremo un segnale unico all’intero Paese”. Così Antonio Decaro ha invocato l’obbligo della mascherina all’aperto. L’obiettivo è ridurre la circolazione del virus, nelle ore in cui i contagi aumentano, unitamente alla preoccupazione per la “Omicron”, per la quale i ministri della Salute del G7 richiedono un’azione urgente – l’allarme è stato comunque ridimensionato dalla scienziata Angelique Coetzee, che parla di sintomi lievi indotti dalla nuova variante. In Italia i sindaci stanno facendo pressing sul Governo perché lo stesso valuti l’opportunità di rendere obbligatorio l’uso della mascherina all’aperto su tutto il territorio nazionale, dal 6 dicembre al 15 gennaio. Lo fa sapere il sindaco di Bari e presidente dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) guardando ai giorni nei quali le strade cittadine vanno riempiendosi di gente. L’obiettivo, per quel periodo coincidente con le festività natalizie, è aumentare le restrizioni, per chi non ha fatto il vaccino particolarmente. Secondo lo stesso Decaro, usare la mascherina anche all’aperto significa abbattere significativamente (“almeno del 50 per cento”) la possibilità di diffondere il virus.

Premesso che la prudenza non è mai troppa, c’è da interrogarsi sull’utilità della proposta, diventata già realtà in diversi comuni, nei centri storici. Servirebbe veramente? Se c’è qualcosa che abbiamo imparato in questi quasi due anni di convivenza col virus maledetto è che per essere contagiati bisogna essere a contatto stretto e piuttosto prolungato con la persona infetta: al netto della straordinaria contagiosità di questa o di qualsiasi altra variante, appare altamente improbabile che, incrociando in strada una persona positiva al Covid, un individuo (peraltro vaccinato) possa essere contagiato in una frazione di secondo. Altro discorso ovviamente è l’assembramento. Quelle condizioni di stazionamento, nelle quali il Covid può trovare in effetti terreno fertile. Più dell’obbligo generalizzato della mascherina all’aperto, sarebbe opportuno affidarsi al buonsenso. Ovvero cautelarsi anche laddove non interviene la legge. Nel contenimento della circolazione virale, che in Italia resta più bassa rispetto agli altri Paesi Ue, è bene intervenire e investire nei luoghi al chiuso: assicurarsi che il green pass venga controllato ad ogni ingresso, potenziare la rete dei mezzi di trasporto; mettere in sicurezza il mondo della scuola, dove aumentano i focolai, per l’assenza di distanziamento. Magari far rispettare l’obbligo della mascherina nei palazzetti e negli stadi, dove abbondano le strette di mano e gli abbracci. Ma almeno, quando siamo a passeggio su una strada pressoché deserta, ci sia concessa la libertà di respirare l’aria assaporando anche l’odore del freddo senza avere indosso quella museruola tanto odiosa quanto benedetta.

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Turismo, il personale che non si trova: la colpa è degli sfruttatori

Gli stranieri fanno il lavoro che gli italiani non vogliono fare. O meglio, lo fanno alle condizioni che i nostri connazionali ritengono di non dover accettare: paghe misere, alloggi non idonei, ore di servizio interminabili. Così, nel comparto turistico, si fa necessario il ricorso al personale straniero, quest’anno. E questo, per il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, rappresenta un paradosso. Il ministro “dà i numeri” senza tentare di avventurarsi in una disamina più profonda, nella ricerca delle ragioni che stanno alla base del diniego tra i giovani e meno giovani aspiranti al lavoro, inteso (ancora) come strumento di dignità. “Al comparto turistico mancano tra le 200mila e le 300mila figure lavorative. Un paradosso se si pensa che il Paese paga un tasso di disoccupazione al 9%”, ha detto intervenendo al video-forum 2021 sul cantiere delle riforme del Governo Draghi per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza organizzato da ItaliaOggi, rilevando inoltre l’imminenza della stagione invernale, concomitante con le tante richieste pervenute per far partire il decreto flussi al più presto. Già, perché in tanti vorrebbero raggiungere per motivi di lavoro lo Stivale, mentre gli italiani vogliono beneficiare delle infrastrutture per fare le vacanze; altrettanti badano ai loro affari, agli interessi legittimi personali, tra un’ondata di contagi Covid e l’altra, senza troppo curarsi dei diritti fondamentali di ogni lavoratore ed essere umano. Rifiutare il lavoro (quello sì) è un paradosso. Perché, alle giuste condizioni, nobilita l’uomo riempiendogli l’esistenza.

Reddito di cittadinanza – La misura rifinanziata con 200 milioni di euro dal Governo Draghi si colloca nell’azione di contrasto alla povertà. Ovvero all’esclusione sociale e alla disuguaglianza, per mezzo del sostegno economico, provvisorio: l’obiettivo è, resta, il reinserimento lavorativo di quanti beneficiano dell’integrazione al reddito da nucleo familiare. Ma quale lavoro costoro dovrebbero trovare e poi accettare? Se destinati ad essere sottopagati, bene fanno a continuare ad intascarsi il Rdc, utile anche a combattere la precarietà, il sistema di sfruttamento vero e proprio retto dalla spremitura della manodopera. Che avviene nel comparto del turismo e non soltanto. I nodi da sciogliere sono tanti. La stessa misura va nella direzione del ridimensionamento: la stretta voluta sul Reddito di cittadinanza, al fine di migliorarlo, potrebbe prevedere decurtazioni da 5 euro al mese, a partire dal sesto di inattività. Se non la revoca del beneficio qualora la proposta di lavoro venga rifiutata. Gli strumenti cambiano, la questione di fondo resta immutata da anni. La comunità europea ci potrebbe dare una mano: l’Italia si dovrebbe adeguare agli standard globali che accettano i Paesi più civilizzati. Si pensi alle politiche sociali avviate dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Laddove si ritiene congruo, dignitoso, un salario minimo di 15 dollari all’ora, utile a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori americani.

Metalli pesanti, il calvario di Carlo Calcagni nell’indifferenza dello Stato

Chi scrive ha avuto il privilegio di pedalargli accanto. Non molto tempo fa, in gara: era e continua ad essere un atleta straordinario, il leccese Carlo Calcagni. Semplicemente uno che non molla mai. E che è capace di fare dello sport, del ciclismo in particolare, la sua ragione di vita, il farmaco più efficace. Il male che non può curare lo ha incontrato durante una missione internazionale. Era il 96 del secolo scorso quando, in compagnia di altri 3mila soldati italiani, il paracadutista e pilota istruttore di elicotteri fu inviato in Bosnia Erzegovina per dare il proprio contributo alla missione di pace della Nato “Joint Endeavour”, funzionale al soccorso civile e militare. Mentre i militari americani erano informati dei pericoli ai quali si sarebbero esposti operando in quell’area, e per questo indossavano strumenti di protezione adeguati (maschere, tute speciali, respiratori a circuito chiuso), gli italiani no. “I vertici militari e politici sapevano, ma hanno volutamente taciuto”, ha denunciato Carlo Calcagni. Che si è ammalato gravemente dopo pochi anni. La stessa missione, infatti, gli ha procurato una massiccia contaminazione da metalli pesanti. Il nemico ha avvelenato ogni cellula del suo corpo generando una grave malattia neurologica cronica degenerativa ed irreversibile. L’unico rimedio sono i farmaci, dei quali l’uomo è costretto a fare incetta sempre (300 pastiglie al giorno, 7 iniezioni, 4 o 5 ore di flebo). Ma le sofferenze fisiche e morali permangono. Le sue notti sono spesso insonni, passate in compagnia del ventilatore polmonare.   

La storia di Carlo Calcagni, raccontata da Michelangelo Gratton per Ability Channel (docu-film “Io sono il Colonnello”), è nota ma non troppo divulgata. Recentemente se n’è occupata la trasmissione televisiva “Le Iene”: l’inviato Luigi Pelazza, che ha interpellato anche il Sottosegretario di Stato al Ministero della difesa Giorgio Mulé. Un lavoro prezioso quanto inefficace. Perché a distanza di cinque mesi, nulla è cambiato. Lo ha denunciato lo stesso CC dichiarando di essere disposto a rinunciare al risarcimento milionario pur di ricevere una parola di scusa da parte delle istituzioni. Un atto dovuto che andrebbe esteso a quanti condividono lo stesso dramma.

Ciononostante la testimonianza della “Vittima del dovere” è un inno alla vita. Che va vissuta fino in fondo, in ogni circostanza. A costo di subire ingiustizie senza soluzione di continuità. Tra le ultime c’è l’esclusione dalle Paralimpiadi di Tokyo, inflitta dalla commissione tecnica classificatrice, per la quale il male di cui soffre il Colonnello Calcagni non soddisferebbe i criteri minimi per il ciclismo paralimpico. Sebbene lo stesso sia stato riconosciuto come malattia professionale con il 100 per cento di invalidità permanente. Ebbene la “colpa” di Carlo Calcagni, confida lui stesso, è quella di avere una tempra ed una resilienza straordinaria, tali da non conferirgli l’aspetto del malato. Il ciclismo ha sempre fatto parte della sua esistenza. Le due ruote prima, il triciclo successivamente, devono restituirgli la bellezza della libertà, il dominio della fatica e dell’imprevisto. Mentre il resto sfugge alla nostra volontà. Perché espressione di un disegno troppo grande.  

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Cinghiali, l’emergenza che la politica non può più ignorare

La premessa è che anche il cane può attraversare improvvisamente la carreggiata provocando un incidente più o meno grave. Nessuno però, tra quanti possono definirsi membri di una civiltà, si sognerebbe mai di abbattere il fido amico dell’essere umano. Per quest’ultimo raramente il cinghiale rappresenta un pericolo reale. Al netto degli incidenti che possono verificarsi quando si è alla guida di un’auto… È successo anche nella provincia di Taranto: sulla statale 13 (Castellaneta – Castellaneta Marina), alle prime luci dell’alba, un veicolo si è scontrato violentemente con un cinghiale di grossa taglia. Fortunatamente l’uomo che era al volante, diretto ai campi per andare a lavorare, ha riportato solamente uno spavento grave. Ha riportato danni, però, la carrozzeria della sua macchina. L’incidente avrebbe potuto avere esito drammatico se lo stesso veicolo avesse impattato con il cemento dei canali presenti a bordo carreggiata.

L’episodio non è certo isolato. E ha raccolto le proteste della Cia – agricoltori italiani. Che ha segnalato anche la presenza di un branco avvistato alle porte di Ginosa marina. “È inaccettabile che il proliferare fuori controllo dei cinghiali (scorrazzano nelle campagne raggiungendo anche i centri urbani, ndr) metta quotidianamente a rischio onesti lavoratori che si recano ogni giorno a lavorare, per non parlare di quello che i branchi di ungulati combinano nei campi, distruggendo intere coltivazioni”, ha denunciato il presidente di Cia Due Mari (Taranto – Brindisi) Pietro De Padova. L’allarme è giustificato. Al presidente De Padova fa eco Vito Rubino, direttore della declinazione provinciale di Cia Agricoltori italiani della Puglia: ambedue hanno sottolineato la necessità di proteggere sì gli animali, ma anche gli esseri umani, e perché “questa situazione non può più continuare, si assumano le giuste decisioni per evitare conseguenze irreparabili. Le segnalazioni e i danni prodotti dai cinghiali si sono moltiplicati dalla provincia ionica al foggiano. Al punto che si fa necessaria la costituzione di una task force regionale, con l’abbattimento dei capi attraverso un controllo selettivo, e la realizzazione della filiera del cinghiale in Puglia.

Cosa fare in caso di incontro ravvicinato con l’animale? Gli esperti raccomandano in primis la calma, motivata dalla consapevolezza che i cinghiali, al pari della maggior parte degli animali selvatici, temono l’essere umano. È poi necessario farsi sentire – con un bastone, magari, se l’incontro avviene lungo un sentiero. Quello che non bisogna assolutamente fare è scappare o dare le spalle all’animale. Occorre invece fermarsi, mantenere sempre la calma, e la debita distanza; poi osservare il comportamento del cinghiale, o del branco: generalmente se ne vanno. In circostanze particolari si può considerare l’opportunità di mettersi al riparo da un eventuale attacco salendo su un albero o su un muretto alto più di un metro. Quindi aspettare. Perché pazienza e sangue freddo, per chi li ha, rappresentano la migliore arma.    

Denatalità ai massimi storici: invertire il trend è obbligatorio

La questione non viene percepita in tutta la sua gravità dall’opinione pubblica. Eppure, l’allarme è giustificato dai numeri dati e dalla proiezione dell’Istat: per la prima volta, i nati in Italia, a conclusione dell’anno in corso, scenderanno sotto la soglia dei 400mila – verosimilmente intorno ai 390.000. Ciò significa che il Belpaese è destinato a veder dimezzata nel lungo termine la sua popolazione: da 60 milioni di abitanti a 30. Parallelamente non si arresta il processo di invecchiamento. Che comprensivo di costi, non è cominciato certo oggi. Ma la pandemia, nei suoi effetti catastrofici, lo ha velocizzato ancora: l’ondata dell’autunno scorso ha peggiorato il trend, negativo dal 2014. La scelta di fare figli è condizionata dalle ansie per il futuro e dalle precarietà di oggi. Gli effetti sull’economia, allora, possono essere altrettanto catastrofici. Infatti, se fosse confermata la proiezione, il Prodotto interno lordo scenderebbe del 6,9 per cento entro il 2040, quando la popolazione andrebbe giù di circa 4 milioni. Le conseguenze sono pesanti sul welfare dell’intero Paese. Si pensi al sistema pensionistico, alle pari opportunità, o al mondo del lavoro.  

Per combattere la denatalità è fondamentale sensibilizzare la politica e gli esperti di comunicazione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di rassicurare le coppie fornendo loro gli strumenti per vincere la paura di diventare genitori, e di non poter disporre di servizi adeguati, idonei alla crescita dei figli nella prima età della formazione. La questione demografica era stata già affrontata dal premier Draghi agli Stati generali della Natività dichiarando che un’Italia senza figli è destinata a invecchiare e a scomparire. Per questo, il sostegno economico alle famiglie diventa fondamentale attraverso lo strumento dell’assegno unico come misura epocale, storica, che dal 2022 sarà estesa a tutti i lavoratori.

Se la situazione è critica in Italia, non se la passano bene altrove: persino in Cina, il governo intende intervenire sul numero degli aborti riducendone la pratica laddove non sussistono le cosiddette ragioni mediche.

Invertire il trend si può. Perché la ripresa post pandemia investe ogni settore. Di certo, le precedenti stime sono state disattese in toto: l’epoca delle quarantene, della convivenza forzata delle coppie, il maggior tempo a disposizione non hanno prodotto alcun boom di nascite. Mentre, come sappiamo, il virus ha aumentato in Italia i morti (più di 130mila). Le preoccupazioni riguardano anche le coppie interessate alle procedure di procreazione medicalmente assistita. Infatti, in diverse regioni, si registra un calo del 30% dell’uso di farmaci necessari per le pma, diversamente da quanto verificatosi l’anno scorso. Il sostegno a quelle coppie va garantito attraverso l’attuazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) per consentire un più facile e giusto accesso alle cure. L’auspicio inoltre è che la genitorialità si raggiunga nei giusti tempi: l’età media di chi diventa madre oggi è superiore ai trenta.